BLOG DI ISLA NG BATA - L'ISOLA DEI BAMBINI

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Emanuele, volontario nelle Filippine: un’esperienza illuminante e piena di emozioni

Ciao a tutti,

ho pensato di scrivere una lettera a tutti voi amici e sostenitori di Isla ng Bata – L’isola dei Bambini Onlus (per me ormai soltanto “Isla”), come se ci conoscessimo già. Ed effettivamente con alcuni è un po’ così!

Mi chiamo Emanuele, ho ventiquattro anni e sono un volontario dell’associazione da circa otto anni. Ho iniziato a partecipare alle attività di raccolta fondi qualche anno fa e finalmente, ad aprile di quest’anno, ho deciso di partire per andare a conoscere le bambine, di cui ho tanto sentito parlare, accolte nella Casa Famiglia nelle Filippine.

Ho iniziato questo viaggio con la leggerezza di chi non è mai uscito dall’Italia. Io non avevo mai viaggiato all’estero prima d’ora e, devo ammetterlo, ero spaventato all’idea di dover fare scalo quattro volte, in aeroporti di cui non sapevo neanche l’esistenza, con l’angoscia di perdere il mio bagaglio. Nonostante questo, ce l’ho fatta. Mi sono imbarcato in quest’esperienza e, dopo ventiquattro ore di volo, sono finalmente arrivato a destinazione: la Isla ng Bata House (Bata ng Calabnugan Orphanage), Dumaguete City, Negros Oriental.

Per lungo tempo ho parlato ad amici, parenti e sostenitori di questa casa per me “un po’mitica” e delle bambine che accoglie. Non mi sembrava quasi di essere arrivato lì, in quel luogo così vicino e al tempo stesso lontano. Io avevo immaginato la giungla, una fauna poco ospitale, il caldo torrido e la solitudine e invece…

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Emanuele in Italia durante un evento di raccolta fondi per Isla.

Al mio arrivo a Dumaguete c’era Francesco, presidente di Isla ng Bata – L’isola dei Bambini, con maglietta, pantaloncini corti, infradito, un libro in mano e il suo gran sorriso sul volto. È stato bello stringersi lì, nelle Filippine, accanto al pulmino arancione che tante volte avevo visto nelle foto che appendevo ad ogni evento di raccolta fondi in Italia.

Mi guardavo attorno felice per essere finalmente arrivato a destinazione con il mio bagaglio e perché finalmente ero riuscito a realizzare un sogno: quello di poter toccare con mano una realtà per cui avevamo a lungo lavorato. Uso il “noi” perché io sento tutto questo anche un po’ mio.

Quando il grande cancello della Casa Famiglia si è aperto mi sono sentito dentro una favola. Una casa grande, colorata, circondata da verde smeraldino e piena di voci di bambine e adulti. Flora, la moglie di Francesco e “mamma” della casa, era lì ad attenderci.

Sono stato fortunato per aver trovato in casa al mio arrivo il grande Peppino, papà di Francesco e socio fondatore di Isla ng Bata – L’isola dei Bambini Onlus. È lui che mi ha aiutato a trovare un “posto” i primi giorni nella Casa Famiglia. All’inizio la comunicazione con le bambine non è stata facile, anche a causa del mio pessimo inglese.

A parte le difficoltà legate al caldo, ho iniziato a lavorare subito: ogni giorno sveglia alle 5:30/6:00 e, insieme a Francesco, accompagnavo le bambine a scuola per il corso estivo. Così avevo modo di guardare la città e conoscere anche un po’la vita del popolo filippino. I filippini trasformano tutto in gioco, anche le cose serie. Sembrano non seguire alcuna regola. Per esempio vanno in moto senza casco e a volte in sella ci sono intere famiglie di due, tre o quattro persone.

Ero felice di essere lì. Dopo una settimana avevo già dimenticato tutte le mie comode abitudini: non avevo un computer, un accesso ad Internet, una macchina. La mia quotidianità si stava semplicemente trasformando. Non sono abituato a svegliarmi presto, chi mi conosce lo sa. In Casa Famiglia, invece, mi svegliavo all’alba e, dopo aver accompagnato le bambine a scuola, lavoravo al Progetto di Sviluppo Rurale fino ad ora di pranzo. Dopo la pausa pranzo, si ricominciava fino alle cinque del pomeriggio: in Casa Famiglia c’è sempre qualcosa da fare. Sempre!

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Emanuele in Casa Famiglia con la piccola Divina.

Dopo circa una settimana ho avuto una sorta di illuminazione, qualcosa che non era ancora chiaro dentro di me, ma che evidentemente era latente. Stavamo a tavola per il pranzo. Le workers di turno avevano finito di cucinare e suonavano la campanella per indicare a tutti coloro che vivono in casa, bambini e adulti, di venire a tavola a mangiare. Ricordo che ero molto stanco. Mi siedo e inizio a riempire il piatto con il solito cibo (riso bianco, pesce fritto in olio di cocco e verdure bollite). Ad un certo punto una delle bambine prende la brocca dell’acqua e mi riempie il bicchiere. Mi volto per ringraziarla e lei mi ha sorride.

Allora mi sono messo ad osservare la tavolata, piena di bambine, workers, gente del posto a cui non si rifiuta mai un pasto e il mio sguardo si è posato su tutte le bambine. Una ad una, le ho osservate lì sedute che mangiavano un pasto caldo, dentro una casa con l’acqua potabile, con dei letti, dei bagni, dei giochi e dei vestiti. Le ho viste sorridere e ho capito perché sorridevo anche io. Io, noi abbiamo contribuito a tutto questo, abbiamo reso possibile il sogno di tante bambine, abbiamo reso possibile i nostri sogni di aiutarle ad avere una vita migliore, con qualcuno che si prenda cura di loro e le ami.

Dopo dieci giorni le bambine hanno iniziato ad avvicinarsi a me, abbiamo iniziato a giocare e a fare amicizia, le ho aiutate a stare in equilibrio sulla corda, le ho inseguite per i corridoi e loro mi hanno insegnato i loro giochi. Ho anche iniziato a fare amicizia con i workers e le tate filippine. Ho conosciuto Simon e George, due americani stupendi che sostengono la Casa Famiglia, insegnando anche alle bambine a suonare la chitarra.

Il tempo è volato così, velocemente. Alla fine ho provato dei sentimenti contrastanti. Mi mancavano la mia famiglia, i miei amici, la mia routine. Tuttavia non volevo separarmi dalle bambine che consideravo ormai come piccole sorelline da coccolare e di cui prendermi cura.

Ho rifiutato la “canzone dell’addio” che le bambine cantano ogni volta che un ospite va via. Io ho la speranza di tornare e la prossima volta farò di tutto per trattenermi più a lungo. Anche cinque o sei mesi e, perché no, un anno. Ormai ho capito cosa significhi prendere un aereo e volare dall’altra parte del mondo!

Saluto tutte e tutti e vi abbraccio calorosamente, con l’augurio che un giorno anche voi possiate fare la mia stessa esperienza e provare le emozioni che ho provato io che, lo so, non mi abbandoneranno più.

Emanuele Acca, volontario nelle Filippine